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Intervista ad Adelmo Togliani: versatile talento italiano

Creato il 19 maggio 2012 da Thefreak @TheFreak_ITA

Attore, regista, sceneggiatore, autore televisivo e cinematografico, Adelmo Togliani è un giovane e versatile talento del panorama artistico italiano.

Figlio del grande Achille Togliani, Adelmo vanta un curriculum strepitoso: in Tv ha recitato in “Un anno a primavera”, “Il priore di Barbiana”, ” Un matrimonio” di Pupi Avati, “Il signore della truffa”, e in “Un medico in famiglia 7″.  Al cinema in “Naja”, e in “Boris-il film”. E’ regista teatrale di grandi successi come “Tele-degrado”, “Io, Clarence” e “Quinto potere-Network”.

Ma ama cambiare ed è per questo che si presta a esperimenti sempre più innovativi: portano la sua firma infatti anche tanti progetti interamente sviluppati e dedicati alla rete.

In questa intervista ci racconta delle sue passioni, del legame con suo padre, della sua carriera, dei suoi progetti e dei suoi sogni, raccontando come non ci si debba mai fermare nella convinzione di aver imparato tutto, ma piuttosto cogliere ogni occasione per studiare e migliorarsi.

Adelmo, il rimando a tuo padre Achille, è chiaramente inevitabile, raccontaci però prima di te, com’è nata questa passione per la recitazione? 

Nel ’90 mio padre ha fondato un’Accademia e ha istituito il primo corso di recitazione. Così, quasi per gioco, senza sforzarmi assolutamente perché mi ha sempre lasciato libero di scegliere, e a volte persino di “sbatterci la testa”, ho cominciato.

Ho capito che mi piaceva dall’impegno che ci mettevo: arrivavo sempre prima alle prove, cercavo di fare da assistente ai miei docenti per imparare, facevo tutto con estrema dedizione, era la prima cosa in cui veramente mi impegnavo, avevo solo tredici anni.

Ho sentito allora che era quella la mia strada, perché non c’era nient’altro che m’interessasse, a parte i videogiochi! Difatti devi sapere che io sono un nerd della prima ora! Questo termine è abusato oggi! Ma chi davvero può dire di essersi chiuso di sabato pomeriggio in uno di quei vecchi negozi di videogiochi, che non erano come quelli di adesso, erano come si raccontava in “Alta fedeltà” di Cusack! Quei negozi di dischi dove trovavi l’intenditore capace di farti sentire davvero in soggezione per la tua imbarazzante impreparazione. Comunque aldilà di loro che riguardavano il mio tempo libero, l’Accademia assorbiva tanto del mio tempo settimanale.

Sono stato fortunato però perché i miei genitori venivano da quell’ambiente e quindi mi hanno sempre sostenuto in questa scelta, questo fa forse l’80% per chi sceglie la carriera artistica, perché è così difficile da seguire che diventa quasi impossibile se non hai il supporto di chi ti vuole bene. Certo mi hanno sempre chiesto di mettere prima lo studio, ma io li ho sempre accontentati e quindi, di rimando, ho potuto “accontentare” anche me stesso continuando a recitare, che è la mia vera passione.

Devo dire che non ho mai creduto nel cosiddetto fuoco sacro a tutti i costi, ho sempre preferito tenere fede all’impegno, giorno per giorno. Forse perché ho sempre visto questo come un lavoro, e non ho mai guardato granché all’aspetto bohemien del mio mestiere. Spesso infatti si crede che chi fa l’attore lo fa perché non vuole fare niente. Io in questo sono sempre stato controtendenza, sono uno stakanovista, forse perché era anche la cultura di mio padre; considera che anagraficamente ci differivamo di cinquantuno anni, è come se mi avesse tramandato un percorso professionale di un genere diverso rispetto a quello moderno, lavorava quasi come una macchina, continuamente.

Stava sempre lavorando, magari faceva delle cose inerenti ai suoi hobby ma comunque le faceva con una dedizione tale da arrivare a considerarle un lavoro. Ad esempio era un collezionista cinematografico, ma lo faceva con un impegno tale da dare l’impressione di farlo per mestiere, “l’archivista cinefilo”.

Ho amato subito recitare anche se dopo un certo tempo ho sentito fosse limitante fare solamente quello e per questo mi sono tuffato nella regia…

A proposito, in quale ruolo ti senti più a tuo agio? Nei panni del regista o dell’attore? 

Fare il regista ti consente, con tutte le responsabilità che hai, i pensieri e la fatica che tutto questo comporta, di rivalutare il mestiere dell’attore, perché quando fai l’attore sei assolutamente privilegiato, e assurgi ad un livello tale di importanza, che poi in realtà ne hai quasi paradossalmente meno di tutti, che dimentichi tutti i vantaggi di cui stai godendo, sei assolutamente più leggero.

La regia comporta invece molti impegni, molti obblighi, devi controllare tutto e tutti, il lavoro è il quadruplo, così quando vesto questi panni mi dico “Cavolo fare l’attore è proprio bello, si sta proprio bene! Si fa proprio la bella vita!“.

Non ho una preferenza perché sono due cose molto diverse, ovviamente essendo un tipo molto curioso mi piace approfondire, conoscere la gente, le dinamiche umane, e in questo senso fare il regista è la cosa che cerebralmente più mi completa.

Invece l’attore è bene o male un burattino. Quando riesci a padroneggiare i ruoli, la situazione, anche quando fai un ruolo che veramente ti piace, che desideri, che aspettavi, e riesci a tuffartici dentro, diventare personaggi che hai sempre voluto interpretare, allora a quel punto diventa un’esperienza unica, e non ce n’è per nessuno. Se questo accade a teatro poi, dove c’è una continuità di spazio, tempo e luogo, perché sostanzialmente avviene tutto nel giro di quelle due ore, mentre quando fai l’attore di cinema è tutto più schematico, è una sequenza continua di “attacco e stacco”, che mette anche a dura prova la tua mente, a teatro tu entri in quel personaggio e per due ore sei solo quello, è qualcosa di eccelso, unico, vivere quel momento a contatto con la gente, in live e non come al cinema che chiaramente è differito. E’ una sorta di estasi, non ha eguali.

Non saprei però scegliere, entrambi completano il mio sentimento, la mia esigenza.

C’è un personaggio tra quelli che hai interpretato al quale sei più legato? Un ruolo che sognavi e che dopo ti è capitato di rivestire? 

Tempo fa abbiamo fatto uno spettacolo importante “Naja” di Angelo Longoni, torno indietro nel tempo, agli inizi, lo portammo in scena con Enrico Lo Verso e Stefano Accorsi; il mio sogno era quello di continuare quella storia, era una vicenda che avevamo portato a teatro in giro per l’Italia e che poi è diventato un film, io interpretavo un ragazzo debole che aveva la madre malata, assumeva spesso pasticche e chiedeva in continuazione le licenze, era un personaggio sofferente e vittima del sistema che nello spettacolo veniva raccontato: il nonnismo.

In seguito in “Un anno a primavera” ho invece vestito i panni di un ragazzo con problemi di autismo, anche quella fu un’esperienza unica, il regista mi lasciò libero di fare ciò che sentivo.

Poi in “Un caso di coscienza” di Luigi Perelli, ho interpretato un ragazzo innocente che viene ingiustamente incolpato di un crimine che non ha commesso, e finisce in galera perché il vero colpevole, economicamente ricco, può permettersi un avvocato migliore, anche se alla fine, fortunatamente, la verità viene a galla.

Mi trovo spesso a interpretare questi personaggi, vinti, vittime, innocenti.

Raccontaci qualcosa di più del tuo rapporto con tuo padre, com’era quand’era in vita e com’è adesso che sei un attore e regista affermato?

Sento una continuità forte dal punto di vista spirituale, mio padre è stato un grande esempio dal punto di vista umano, quasi ineguagliabile, impressionante, non ho mai sentito parlare male nessuno di mio padre, è una persona che veramente ha lasciato il segno nelle coscienze di chi ha incontrato, fossero professionisti o gente comune.

Oggi ovviamente la gente mi ferma per quello che ho fatto, i giovani mi riconoscono, tante volte impressiona anche me anche perché tutto quello che faccio non lo faccio per popolarità ma perché lo sento come un lavoro. La cosa che più mi fa soffrire infatti nel fare l’attore non è il non essere riconosciuto per strada ma non riuscire a dare a questo mestiere la continuità di un qualsiasi altro impiego comune, anche se la situazione è più precaria per tutti, l’artista precario lo è sempre stato.

E’ bello quando mi fermano perché hanno visto qualcosa di mio, magari non ricordano subito il nome ma riconoscono la faccia, ti hanno visto da qualche parte , ti chiedono.

Quando mi riconoscono è un piacere immenso, quando ricordano mio padre mi fa altrettanto piacere, mi dispiace solo quando un giornalista riconduce l’intera intervista a lui piuttosto che al mio presente e futuro professionale, come se non riuscisse a distinguere le due cose. Ultimamente, tra i giovani, il ricordo di mio padre chiaramente è più sbiadito ed è più bello e giusto quando partono da me per arrivare a lui, o per lo meno quando mio padre non diventa il fulcro del mio lavoro.

Due anni fa ho recitato nel film “La mia casa è piena di specchi” riguardante la vita di Sophia Loren, fu lei stessa a pensare a me per il ruolo di mio padre Achille, e giustamente perché chi altri lo poteva fare? Sophia invece interpretava il ruolo di sua madre, fu impressionante e bellissimo. Quello è stato un regalo che mi hanno fatto e che io ho fatto virtualmente a mio padre. Allora quando è questo il tipo di collegamento con lui diventa qualcosa di stupendo. Se invece un giornalista ricama l’intero articolo su di me parlando di lui è fastidioso, ho passato l’intera vita a cercare di dimostrare di essere qualcosa in più del “figlio di…”.

Hai parlato della precarietà dell’essere attore, c’è stato un momento in cui hai pensato di fare dell’altro? 

Quasi tutti i giorni! Scherzi a parte, sono sempre stato capace di “riciclarmi” come autore, regista, persino come cameraman! Mi sono dovuto ingegnare, non improvvisare perché non mi permetterei mai di fare una cosa del genere, però certo ho dovuto ricoprire a volte dei ruoli di emergenza.

Sul precariato potrei dirti molto, il nostro è un mestiere con poche regole, dove la meritocrazia è rara,e lo è da tempo immemore, più che nelle altre professioni azzarderei dire anche se non mi permetto perché conosco poco gli altri ambiti, però chiaramente ci sono molte meno leggi nel mio settore, si basa tutto interamente sulle illusioni, anche sulla mancanza di concretezza.

A volte mi arrabbio pure pensandoci perché ho avuto sempre una visione molto pratica di questo lavoro, anche se quando vado sul palcoscenico sono anima pura e passione però per me resta un mestiere ed è difficile per me accettare che non ci siano delle regole. L’ho sempre saputo però, e credo ci sia comunque un equilibrio, ho realizzato tanti dei sogni che avevo e tanti ne vorrei ancora realizzare, è anche una questione di destino, di tenacia e determinazione. Quando pensi ad un film ad esempio te lo vedi già proiettato in sala, in realtà però hai bisogno di scrivere e riscrivere la sua storia, cercare gli attori, i finanziamenti, la pubblicità…

Credi che in Italia sia più difficile realizzare progetti di questa portata?

In realtà con le nuove tecnologie è molto più facile produrre un film, il difficile è farlo distribuire, farlo vedere. “Paranormal activity” e “The blair witch project” hanno proprio lanciato uno stile, puoi lavorare anche solo sulle idee, su Internet ad esempio tutto questo è palesato, infatti adesso sto lavorando a tre progetti differenti in questo nuovo ambiente.

Uno di questi, scritto con Elena Tommasini si chiama “Vita da avatar”, spiega di cosa succede ai personaggi dei videogiochi quando la console è spenta, cosa fanno. Ci sono chiaramente tutti gli archetipi: la principessa, il cavaliere, il boss di fine livello. Tutti loro attraverso degli immensi monitor fissati in piazza spiano il mondo umano, ci imitano, ci prendono in giro. Credo questo format sostituirà le barzellette, raccontano di tante cose ma con immediatezza.

Ho scritto tanti episodi, un altro progetto di questo genere, che ho creato con Daniele Ottavi e Elena Tommasini, si intitola “Visi pallidi” e parla di due persone che si svegliano all’obitorio e scoprono di essere morti, è pieno di guests, molto carino.

E poi una web serie in pillole settimanali sullo stile delle vecchie strips a fumetti. Si chiama ”Clarence & Co”, una pulp comedy ispirata al mio spettacolo…

Proprio di “Io, Clarence” volevo che ci parlassi, hai da poco pubblicato il libro a questo dedicato…

Sì, è un sogno che si realizza! E’ un teatro che parla del nostro tempo, il che è una rarità, purtroppo.

Infatti i ragazzi vanno a teatro sempre per vedere i classici, e questo non credo sia accettabile, non c’è niente di meglio del teatro come esperienza, deve creare confronto, dibattito ma per farlo deve raccontare di noi. I giovani a forza di vedere al liceo Goldoni e Shakespeare non vengono più, c’è troppo distacco. Dobbiamo fare conoscere loro il teatro contemporaneo!

Tempo fa portai in scena “Tele-degrado”, improvvisazione teatrale estrema, gli attori uscivano da una sorta di slot machine ed improvvisavano una parodia dei programmi televisivi: “Zolla nostra” invece che “Terra nostra”, “Poesia criminale” anziché “Romanzo criminale”, i ragazzi all’uscita ci chiedevano quando avremmo fatto un nuovo spettacolo, perché se è questo uno spettacolo teatrale ne avrebbero visto volentieri degli altri.

“Io, Clarence”  è attuale, ed è per questo che, ora anche grazie al libro, sta avendo tanto successo ed un proprio sviluppo, credo molto in questa storia.

Adesso stiamo persino adattando “Clarence & Co.” ad un altro scopo, vorremmo farne una sorta di striscia a fumetti, come Snoopy o Garfield, da inserire settimanalmente nella pagina di un notiziario virtuale, agganciando l’episodio alla notizia del giorno, che diventa così background della nostra storia.

Sabato 19 Maggio invece è “La notte dei musei” e tu porti in scena un altro tuo spettacolo…

Sì siamo ospiti alla biblioteca Flaminia e alle 20:30 comincia il nostro “L’amore ai tempi della crisi” scritto da me e Elena Tommasini dove ho coinvolto i miei allievi dell’Accademia che dirigo con mia madre.

Si tratta di uno spettacolo con degli inediti molto belli come quello riguardante l’amore tra un attore ed una giovane intitolato “Il fachiro dei sentimenti” che racconta di un’intesa speciale e di come anche un artista, davanti alla persona giusta, possa fermarsi e rinunciare alla propria vita sregolata, “Equilibrista per amore” che invece spiega, in chiave comica, la versione della storia raccontata dalla ragazza,  e poi c’è persino l’amore emo di “Frezza in love” storia di questo dj (ideato da Valentino Briguglio, un mio bravissimo allievo) che ha vinto il concorso “Piccole lamette crescono” e che spiega alla sua fan, innamoratissima, che amarla gli darebbe troppa gioia e che non gli sembra il caso, piuttosto meglio andare assieme ad un funerale.

Un altro inedito si intitola invece “Natale in Nepal” scritto invece da un altro mio alunno Enrique Hernandez  che racconta dell’esilarante viaggio di una coppia a cui ne capitano di tutti i colori.

Quali sono le doti che non devono mancare a chi vuole iscriversi alla tua Accademia, a chi vuole fare l’attore?

Probabilmente non esiste un prototipo, ci vuole anche la fortuna per sfondare in questo campo, però senz’altro la determinazione, l’applicazione, lo studio, la costanza e il talento sono requisiti che non possono mancare, anche se chiaramente quest’ultimo senza le altre quattro componenti a poco serve.

Tanti considerano James Dean il loro idolo, ma oltre al talento in lui c’era del genio, della meticolosità, della precisione e tantissimo impegno e professionalità! Invece di indossare una maglietta con la sua foto farebbero meglio a leggere della sua storia, solo allora potrebbero dire che è il loro esempio.

La nuova generazione in questo senso deve ordinare le proprie idee e considerare che non hasolo diritti ma anche tanti doveri.

Dovremmo farci tutti, io per primo, più esami di coscienza, analizzarci e diventare più precisi, senza smettere mai di studiare, io ho dovuto ricominciare ad esempio con Pupi Avati per “Un matrimonio”, con lui sono continuamente sotto esame, devo imparare, riprendere concetti che ho tralasciato. A volte riesce a demolirti ed è lì che devi fermarti e capire che ha ragione lui, che anzi per te è un’occasione per crescere, comprenderti, rimetterti in discussione, ti sta vicinissimo mentre gira, sei sempre sotto interrogazione, è una violenza ed è bellissimo, straordinario.

E’ un maestro, ama gli attori ma li pone continuamente in questa condizione ed in questa tensione c’è la sua grandissima forza, lavorare con lui ti porta continuamente ad imparare, in fondo è la cosa più giusta, come dice Barton infatti “E’ quando hai finito di cambiare che hai finito”.

 

Intervista a cura di Maricia Dazzi

Si ringrazia Adelmo Togliani per la disponibilità e il suo Ufficio stampa

 


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